Un campo di calcio per bambini contro la camorra. Nella struttura di cui parlò Saviano
di Francesca Leva –
È una giornata di festa al campetto di calcio di Villa Nestore a Marianella-Piscinola, i ragazzini si rincorrono sui tetti, intonano “Un giorno all’improvviso…”. Effetto Rai lo potremmo definire, ci sono gli inviati di “Quelli che il calcio”. Sono venuti a conoscere e a mostrare quelli che sono etichettati come “ragazzi difficili”: hanno alle spalle storie familiari complesse eppure nei loro occhi si legge l’entusiasmo perché andranno in televisione, perché sono loro i protagonisti delle interviste. Roberto Saviano ne ha scritto su Repubblica lo scorso 10 marzo; tre giorni prima, una bomba rudimentale rischiò di farli saltare in aria mentre giocavano. Una notizia poco diffusa, come lo stesso Saviano ha commentato, proprio per salvaguardare in qualche modo loro e il loro diritto a divertirsi. «Abbiamo cercato di fare poca pubblicità all’accaduto – ci spiega Antonio Arzillo, il responsabile della struttura gestita dal centro nazionale sportivo Fiamma – se non fosse stato per Saviano che ne ha scritto, avremmo cercato di tacerlo e non per fare gli omertosi o negare la situazione, lottiamo ogni giorno con questa realtà, ma perché quello che ci interessa non è fare notizia, non è il sensazionalismo, bensì la normalità. Fino a poco tempo fa, venivano sempre gli stessi a giocare qui, il campo era il loro territorio, ultimamente ci sono tante famiglie ad iscrivere i loro figli ed è questo il nostro obiettivo: vorremmo far diventare questo posto un normale campetto di calcio dove i ragazzi del quartiere possano venire a giocare e ad allenarsi, tutti i ragazzi. Non vogliamo che passi il messaggio che è un posto pericoloso, che alcuni dei ragazzi sono pericolosi; sicuramente sono indisciplinati, senza regole, ma se saranno ghettizzati, se non avranno la possibilità di confrontarsi e giocare con altri ragazzi che hanno una storia diversa dalla loro, non sapranno mai che esiste altro e non avranno alcuna possibilità di scelta».
Il campetto nel quale giocano, anzi vivono, ogni giorno fa parte di un centro sportivo più ampio, con piscina e campi da basket. Fu costruito dopo il terremoto con i soldi della ricostruzione, una delle tante cattedrali nel deserto. Terminati i lavori, la struttura non ha mai avuto l’agibilità e quindi non è mai stata utilizzata; col tempo è stata occupata dalla criminalità e utilizzata per le loro attività illecite. Dopo l’intervento delle forze dell’ordine per confiscare alla camorra quel suolo di proprietà del Comune, una parte della struttura ha finalmente ottenuto l’agibilità. «La piscina, il campo di basket e il centro sociale sono gestiti direttamente dal Comune, – spiega Antonio – il campo ci è stato affidato dalla Municipalità perché lo riqualificassimo. Questo campo tra l’altro ha una grande particolarità, è un campo da pallamano femminile, l’unico di tutta la Campania».
È il 2013, inizia un percorso difficile, la struttura versa in uno stato di degrado e abbandono pauroso, i lavori da fare sono tanti e i soldi pochi. «Come se non bastasse, si sono susseguiti un gran numero di atti vandalici. Ogni mattina arrivavamo con l’unico dubbio di cosa avessero distrutto o divelto, hanno rubato il materiale elettrico, distrutto i bagni, forzato le porte e i tombini. Sono solo ragazzi, ma non hanno alcun senso delle regole, anzi le osteggiano».
Hanno tra gli 8 e i 15 anni, abitano nelle palazzine alle spalle della struttura, talvolta nei garage, hanno famiglie problematiche alle spalle, alcuni hanno il padre agli arresti domiciliari. Per molti di loro il campetto di Villa Nestore è una seconda casa, un’alternativa alla strada, ci passano l’intera giornata, non vanno neanche a scuola o se ci vanno lo fanno per distrarsi un po’. «Quando andiamo a scuola, mettiamo i piedi sulla scrivania accussì» racconta Enrico mangiando merendine a ripetizione. Per entrare non usano il cancelletto di ingresso ma scavalcano e passano per i tetti. «Prima era più bello perché potevamo fare quello che volevamo» ripetono in coro.
Ma non sono gli unici ragazzi del quartiere, basta fare pochi passi, attraversare il vialetto ed entrare nel centro sociale adiacente per trovare gli “altri ragazzi”, quelli tranquilli, che giocano a dama, imparano a modellare la creta. Una divisione netta e deprimente, che non fa che accentuare le differenze e relegare quelli meno fortunati nel loro territorio, nel loro campetto.
L’ostilità verso l’ordine e la legalità era forte all’inizio «Purtroppo non conoscono il bello, non erano abituati all’ordine – continua Antonio – è stato un percorso difficile far capire che quello era sempre il loro spazio ma che per preservarlo, per poter avere le reti e i palloni, bisognava rispettarlo. Poi una mattina che avevamo lasciato fuori i bidoni della spazzatura li trovammo stranamente intatti e capimmo che qualcosa stava cambiando».
Nel pomeriggio comincia l’allenamento. Arriva mister Mimmo, dipendente del ministero della Giustizia, che tre volte alla settimana viene per insegnare calcio ai ragazzi. Nemmeno la divisione in squadre è operazione semplice, i più piccoli si sentono esclusi. «Non so buoni, con loro non ci gioco – urla Enrico – Il mister fa le preferenze per i grandi».
«Prima di scendere in campo bisogna litigare, passano più tempo a litigare che a giocare» – spiega Angela Palma, la sociologa responsabile della struttura. Marco, Enrico e Raffaele aprono un mottino e si siedono a fare merenda, non tornano mai a casa neanche per il pranzo, solo verso le otto di sera si riesce a farli andare finalmente via. Siete tutti maschi? «E certo, le femmine non possono giocare a pallone – risponde pronto Raffaele – perché i maschi si danno i cazzotti, le femmine si fanno lo strascino». «Pure i trans posso giocare – interviene Marco – perché so’ mezz e mezz». Scoppiano a ridere tutti.
Raffaele passando si appende ad Antonio e ridendo gli urla “Chiattone infame, hai chiamato ’e guardie”, la stessa frase l’ha scritta anche su uno dei muri affinché non ci si dimentichi dell’affronto del 25 febbraio quando è stato assunto un vigilante privato. «Abbiamo scoperto che stavano occupando abusivamente il garage che è sotto la struttura, – dice Antonio Arzillo – piano piano avevano tolto i catenacci, li avevano sostituiti e si stavano costruendo una loro casa. Avevano persino piazzato il filo spinato alle grate per evitare che altri potessero scavalcare ed entrare. Purtroppo molti di loro abitano davvero in garage, quella è la loro casa. Ho avvisato immediatamente il Comune e messo la vigilanza, una spesa ulteriore ma necessaria per non veder sprecato il lavoro svolto».
Una decisione che non è stata accolta bene dai ragazzi e la reazione è stata immediata, a mezzanotte si sono presentati in 20 con mazze e bastoni per assaltare “la guardia”. Per fortuna il piccolo agguato è stato prontamente sventato senza gravi conseguenze. Gennaro Borrelli, “la guardia”, arriva al campo in un boato generale dei presenti che lo salutano festosi e gli chiedono perché è così in ritardo oggi; si stenta a credere che siano gli stessi che volevano picchiarlo appena un mese fa. Gennaro sorride a tutti «La vita è già tanto brutta, soprattutto per questi ragazzi, li capisco perché anche io vengo da una zona non troppo bella, Secondigliano, e sarei stato felicissimo se avessi avuto una struttura come questa. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia alle spalle e l’esempio di mio padre che fa il pompiere cui ispirarmi, molti di loro non hanno questa fortuna».
Ma ti volevano picchiare.
«Lo so, ma devi cercare di capire la loro mentalità e la loro avversione alle regole, alle divise e al potere. Il giorno dopo si sono presentati con caffè e cornetto per farsi perdonare. Sono spigolosi, non accettano le regole, ma sono buoni. Una sera che mia mamma si era dimenticata di prepararmi la cena, mi hanno ascoltato mentre ne parlavo al telefono e mi hanno portato una busta piena di cibo»
Dopo quell’episodio si è cercato di coinvolgere le famiglie e regolamentare l’accesso al campo dei ragazzi con un tesseramento simbolico, 5 euro per coprire le spese dell’assicurazione, che permettesse però di avere un contatto con i genitori, di conoscerli e cercare di interagire con loro. «Quando la notte del 25 febbraio abbiamo riaccompagnato a casa alcuni degli aggressori che erano stati fermati – spiega Antonio – abbiamo capito che in fondo se questi ragazzi sono sbandati e senza regole è perché molti di loro purtroppo non hanno una famiglia alle spalle che li sorregga e dia l’esempio. Un papà che ci ha risposto al citofono mi ha detto “portamelo sopra che lo abboffo di mazzate”, ma io ho cercato di spiegargli che era molto più importante che cercasse il modo per impedire al figlio di stare per strada a mezzanotte. In un’altra casa ci ha risposto una bambina di 9 anni dicendo: “i miei genitori non ci sono, mamma è al bingo”».
Alcuni non hanno voluto tesserarsi, l’hanno considerato un affronto alla loro libertà e un appropriarsi di questo posto che fino a qualche hanno fa era il loro regno, il regno del caos. È uno dei motivi ipotizzati per l’episodio della bomba del 7 marzo. «Mentre giocavano come oggi, ho intravisto un tipo incappucciato che si è avvicinato alla ringhiera alle loro spalle, ha urlato “Uaggliò fujite” – racconta Gennaro Borriello – Era una bombola di gas con un petardo acceso che grazie alla pioggia non è esploso. Ho portato i ragazzi negli spogliatoi e chiamato i carabinieri».
Ci sono però altre piste che gli investigatori hanno preso in considerazione, al principio si era pensato ad un’associazione rivale che volesse scoraggiare il lavoro fatto per poter subentrare nella struttura, ma è stata scartata anche dai dirigenti del centro nazionale sportivo Fiamma. Non è stata scartata la pista più violenta e propriamente camorristica, come accennato anche da Saviano, in diverse occasioni sono stati divelti i catenacci degli accessi al garage sottostante, che è sotto il sequestro dei carabinieri, e si sono viste persone aggirarsi nei pressi della struttura. Nulla di certo per ora, l’unica certezza è che ciò che è accaduto non ha scoraggiato nessuno. Né i ragazzi che continuano ad arrivare tutti i giorni puntuali, né chi lavora nella struttura. «Non sappiamo bene chi o perché l’abbia fatto – conclude Antonio – ma sappiamo che se riusciamo a salvare anche uno solo di questi ragazzi saremo felici e soddisfatti e per questo non ci fermiamo. Tra poco dobbiamo restituire la struttura alla Municipalità perché il nostro in carico di messa in sicurezza è finito, ma non abbiamo il cuore di lasciare questi ragazzi da soli, stanno più con noi che con le loro famiglie, quindi attenderemo un bando per l’assegnazione del progetto sociale per poter continuare a lavorare con loro».
Tratto dal ILNAPOLISTA.IT autore Francesca Leva